L’antica città di Campagna sorge in una stretta gola dei monti Picentini. In posizione orograficamente emergente, alle pendici del Castello Gerione, è ubicato l’imponente Convento dei frati domenicani di San Bartolomeo.
La struttura, edificata tra il XII e il XIII secolo, ha conservato i caratteri distintivi dell’epoca in cui fu eretta.
Nel 1573 il convento visse un momento importante e culturalmente rilevante: vi soggiornò, infatti, l’eretico monaco nolano Giordano Bruno. Nello studium il grande filosofo, l’impenitente e ostinato frate, cantò la sua prima messa. Durante la seconda guerra mondiale l’edificio fu teatro di un altro storico evento: fu tra i primi grandi campi di concentramento per internati civili di guerra, ospitando amorevolmente, dal 1940 al 1943, un grande numero di Ebrei perseguitati dalle leggi razziali.
Discosta di un paio di metri dal convento, è la chiesa di San Bartolomeo. L’interno è ricco di pregiate opere d’arte, autentici capolavori: il reliquario cinquecentesco comprendente un pezzo della Spina Santa e del legno della Croce di Cristo e, ancora, una scheggia della pietra del Sepolcro; l’ostensorio con tronetto, opera di argentieri napoletani del Settecento; la pavimentazione in tipica ceramica vietrese, risalente alla metà dell’Ottocento; il soffitto ligneo dorato a cassettoni, intarsiato e intagliato, anch’esso settecentesco; libri antichi, pergamene, tele, e quadri pregiati di grande valore; il pregiato altare ligneo del Seicento, in oro zecchino, di finissima fattura e di incomparabile bellezza; il taumaturgico Crocifisso ligneo del Trecento, vestito e velato, che esce in processione ogni sette anni o in occasione di eventi straordinari (guerre,Giubilei) o in casi di particolari calamità (abbondanti piogge, prolungate siccità, terremoti, carestie, pestilenze).
E un caso di sciagura, terribile e devastante, fu quello verificatosi verso la metà del XVII secolo, un evento che scosse l’intero Regno di Napoli: la terribile peste del 1656, che decimò anche la popolazione della città di Campagna, facendola passare da circa cinquemila a poco più di milleseicento abitanti, come riportò in una sua relazione del 1662 il vescovo Juan Caramuel y Lobkowits. A causa del morbo interi quartieri si spopolarono. Scene raccapriccianti – in un primo piano i becchini con uncini di ferro per ammonticchiare i cadaveri sui carri tirati dai buoi – erano davanti agli occhi di tutti.
Impressionante l’immagine che Campagna offriva allora: uno squallore terribile, una desolazione immensa, porte semiaperte, finestre socchiuse, rintocchi lugubri delle campane e invocazioni disperate di aiuto echeggiavano da un capo all’altro del paese tormentato. I medici, per cercare di prevenire e curare la peste, usavano miscugli di erbe preparate dai monaci, aceto di vino, forti profumi, cipolle cotte e fiori di borraggine, arrangiandosi come potevano.
I monatti raccoglievano i cadaveri accatastandoli come tanti fasci di legna, senza pietà né per l’età né per il sesso. A quello spettacolo di orrore si contrapponeva, talvolta, qualche scena di pietà commovente.
Come quelle che videro protagonista monsignor Giuseppe Maria Avila, vescovo di Campagna dal 1649 al 1656, e al quale furono affidate le sorti della diocesi. Monsignor Avila, romano, padre e maestro domenicano, era il nipote del cardinale Datario Cecchini. Fu nominato vescovo di Campagna e Satriano il 12 aprile 1649.
Il suo governo fu faticoso e pieno di insidie: le conseguenze della rivolta di Masaniello, infatti, si erano fatte sentire anche qui, a Campagna, e anche qui vi furono discordie , omicidi e stragi. Gli stessi familiari del vescovo furono trucidati.
In quella tristissima occasione fu dato fuoco all’archivio vescovile e distrutte tutte le carte relative ai processi. L’equilibrio sociale si spezzò non solo a causa della peste ma, soprattutto, per la paura e lo scoraggiamento dei sopravvissuti. I fenomeni legati ai moti rivoluzionari e all’epidemia portarono allo spopolamento di alcune zone, alla contrazione delle rendite per molti e al concentramento della ricchezza nelle mani di pochi, favorendo il banditismo e l’aumento del numero dei delitti.
Dunque, monsignor Avila si trovò, suo malgrado, a dover fronteggiare una situazione terribile per più versi e, dopo aver dato conforto a tanti appestati, morì anch’egli “ex contagiosa lue”.
L’eminente presule domenicano, rivestito di una sottana violacea con colletto bianco e un cappotto lungo e nero, fu trasportato a mano sopra una poltrona dall’Episcopio a San Bartolomeo, come in processione, accompagnato da pochi preti e monaci che, lungo il percorso, salmodiavano mestamente. Fu deposto, con tante altre povere anime, sotto l’oratorio della Confraternita del Santissimo Nome di Dio, dove tuttora riposa e il suo corpo mummificato continua a sfidare i secoli.
Nel cimitero-ossario della Confraternita del Santissimo nome di Dio, nel tempo, sono stati seppelliti tanti corpi, tra i quali proprio quelli delle vittime della peste del 1656. Stranamente, tra tutti gli scheletri si riconosce proprio quello si monsignor Avila, i cui resti si conservano benissimo: i paramenti sacri appena scoloriti, i calzari, i bottoni, la cintura, il colletto bianco, la sottana violacea, il cappotto nero, tutti oggetti confezionati con materiale dell’epoca ancora ben visibili e di notevole valore etno-antropologico.
Non ci troviamo nel regno delle piramidi, nel mistero delle mummie dei faraoni dell’antico Egitto, ma certo è che ogni volta che si scende nelle affascinanti”catacombe” di Campagna, tra fede, magia, credenze popolari e mistificazioni, i visitatori restano sempre stupiti.
Carmine Granito